La mia mattina inizia quasi sempre così: il caffè che borbotta, l’odore del pane tostato, continui moniti ai bimbi per cadenzare il tempo e fare tutto per uscire di casa in orario. C’è un ritmo nelle piccole cose, nei gesti che si ripetono ogni giorno.

Ma ci sono giorni in cui, mentre mi infilo le scarpe o preparo la borsa, sento che qualcosa pesa di più. Non è solo il corpo, è come un’invisibile pressione che mi si è poggia sulle spalle senza che me ne accorga. Mi sembra di camminare più lentamente, come se ogni passo chiedesse più energia del solito.

Eppure – forse succede anche a te- quando qualcuno ci chiede “come stai”, il più delle volte semplifichiamo e rispondiamo: “Bene, tutto bene”.

Perché non lo diciamo? Perché non diamo voce a quella stanchezza che conosciamo così bene?
Forse perché non sappiamo nemmeno quando è iniziata, o perché temiamo che dirla ad alta voce la renda più reale, più ingombrante. O forse perché abbiamo imparato a nasconderla così bene da non riconoscerla più.

Ma c’è una parte di noi che lo sa, che sente quel peso e che, forse, aspetta solo di essere ascoltata.

Quella stanchezza, anche se spesso ignorata, non scompare. Resta lì, silenziosa, si nasconde tra un impegno e l’altro, nelle conversazioni veloci e nei momenti in cui ci diciamo che “va tutto bene”.

Si insinua nei gesti che ripetiamo in automatico, nei pensieri che si sovrappongono, nelle emozioni che non trovano spazio per essere ascoltate, crescendo in un modo che ci allontana persino da noi stessi.

Magari è la fatica di gestire tutto, di essere sempre presenti per gli altri, di non deludere. La fatica di un lavoro che assorbe più di quanto vorremmo, di una relazione che ci pesa, di un’emozione che torna e torna e sembra non lasciarci tregua.

Perché facciamo fatica a dire che siamo stanchi?

Ci hanno insegnato a resistere. A stringere i denti, a non lamentarci, a credere che la fatica sia un segnale di debolezza. E così può darsi che abbiamo imparato a nasconderla, a minimizzarla: “È solo un periodo”, “Basta organizzarsi meglio”, “Non ho motivo di sentirmi così”.

Ma la fatica non ha bisogno di essere giustificata. Esiste e basta.

A volte è fisica, altre volte emotiva. Può essere il peso delle aspettative, la pressione di dover sempre rispondere a richieste, o la sensazione di essere sopraffatti da qualcosa che non sappiamo nemmeno nominare. E più la ignoriamo, più cresce, trasformandosi in irritabilità, in chiusura, in quel senso di estraneità che ci fa sentire lontani da noi stessi e dagli altri.

 

Dare voce alla fatica non ci rende fragili, ci rende presenti

Quando è stata l’ultima volta che hai detto a qualcuno: “Sono stanco/a”, senza sentirti in dovere di aggiungere “…ma va tutto bene”?.

O magari ti è capitato che qualcuno te l’ha detto con sincerità. Se è cosi, cosa hai provato? Forse un senso di vicinanza, di comprensione. Forse un piccolo sollievo nel sapere che non sei l’unico a sentirsi così.

Quando nominiamo la fatica, le diamo una forma, le diamo spazio. E in quello spazio possiamo prendercene cura. Possiamo chiederci: di cosa ho bisogno? Di riposo, di una pausa, di non sentirmi solo/a, di una parola gentile?

 

Fare posto alla fatica

Se in questo momento senti addosso una stanchezza che non sai spiegare, prova a fermarti un attimo. Prova a darle voce, anche solo tra te e te. Non devi risolverla subito, non devi trovare per forza una soluzione. Ma riconoscerla, sì.

Perché la fatica che non nominiamo resta lì, silenziosa, e pesa di più.

The following two tabs change content below.
Psicologa delle relazioni interpersonali. Amo accogliere e accompagnare verso il cambiamento le persone che attraversano un momento critico.

Ultimi post di Claudia Mandarà (vedi tutti)