Spesso siamo molto sensibili alle parole degli altri, ci lasciamo toccare e qualche volta ferire; quando permettiamo che entrino e poi finiamo per rimuginare su ciò che ci hanno detto. Qualche volta, invece, non siamo altrettanto sensibili all’influenza che esercitano le parole che usiamo verso noi stessi, sia quando assumono la forma di giudizi interni da parte del critico interiore, sia quando sono modi con cui ci definiamo, aggettivi con cui ci presentiamo, diagnosi che ci attribuiamo (perché gli altri l’hanno formulata per noi o perché siamo andati a scovare online di avere tutti i requisiti per dire “sono depressa”, oppure “forse sono davvero bipolare” o verso qualcuno a noi vicino “cosa posso fare io visto che lui è un narcisista”?).

Le definizioni e le etichette sono semplificanti

Quando ci raccontiamo attraverso delle definizioni o delle etichette, ci classifichiamo incasellandoci in categorie che per noi hanno senso e così pensiamo di offrire una visione chiara di noi agli altri, e di conoscerci. In effetti questo modo di raccontarci ci risolve un problema: ci colloca dentro o fuori una caratteristica; è semplice. “Io sono ansiosa”, “la dottoressa mi ha detto che ho avuto la depressione post partum”, “sai, io sono bipolare quindi…”, “io sono troppo disponibile e generosa” oppure ancora “lui è proprio narcisista”, “lei è paranoica”. O dentro o fuori quella casella e, bella o brutta che sia quella casella, è rassicurante a qualche livello: offre un vestito per presentarci.

Ascolto spesso questi racconti, sia quando le persone si riferiscono a se stessi, sia quando diventano un modo per descrivere altri. Chi mi conosce sa che schivo queste definizioni perché dicono e non dicono.

Spesso questi aggettivi, queste categorie non ci aiutano a comprenderci davvero, ad avere più informazioni su di noi e sulla nostra storia, su come stiamo rispondendo ad una particolare sfida della vita.
Esprimono la presenza di una certa qualità o atteggiamento di fronte alle esperienze (su cui bisogna accordarsi con precisione: cosa significa per te essere ansiosa? Cosa significa essere disponibile o generosa?) ma lo esprimono in una forma statica, che incasella, senza raccontare davvero come si esprime quella caratteristica nella storia di quella persona. Non aggiungono davvero dettagli alla conoscenza di me e dell’altro. Qualche volta deresponsabilizza.

Se ho l’ansia o se soffro di disturbo bipolare, ad esempio, posso imputare a questa condizione una serie di comportamenti. Che responsabilità – e quindi che potere di scelta- ho se mi sono imbattuta in questa malattia?

 

Le parole che ci aiutano davvero a comprenderci e a raccontarci

Il punto secondo me è che finché etichetto me e le mie difficoltà, mi mantengo distante da quegli aspetti di me. Quando invece sono pronta a descrivere con più dettagli la mia esperienza, connettere ciò che sento a ciò che accade, e ai significati che gli eventi assumono per me, allora comincio ad avere più elementi per comprendermi. E poi, per prendermi cura di me.

Facciamo un esempio: una cosa è dire che “ho l’ansia e soffro di attacchi di panico” (cosa che accomuna tante persone e tante storie tutte diverse), un’altra è poter dire che “mi agito tutte le volte che devo prendere una decisione perché temo di sbagliare (e sbagliare nella mia storia ha il sapore del fallire e dell’essere disapprovata)”. Lo senti come suona diverso? Il primo racconto è una dichiarazione rispetto alla quale non ho indicazioni e margini di comprensione e di potere (cosa posso fare per me). Il secondo è una descrizione che presuppone un’esplorazione, che racconta i contorni di una particolare esperienza (quando si manifesta, con che intensità, in relazione a quale stimolo) e presenta degli elementi su cui posso fare qualcosa. Quindi se riguarda proprio me e il mio modo di rispondere ad un evento, posso scegliere o imparare a fare qualcos’altro.

Questo è il lavoro delicato che avviene in ogni psicoterapia: trasformare le etichette piene di contenuti standard in racconti consapevoli, ricchi di dettagli e di opzioni per scegliere come prendermi cura di me. È un processo in cui ognuno si assume la responsabilità di ciò che vive: se dipende da me e da qualche cosa che ho imparato, posso imparare anche un’alternativa migliore. È una bella notizia, dunque.

E adesso tocca a te: quale modo di descriverti agli altri ricorre più spesso? A quali etichette ricorri più spesso? Sono ruoli che occupi, caratteristiche, giudizi o diagnosi che hai ricevuto? Fermati a riflettere: in che modo questa definizione ti è utile per ampliare la visione che hai di te?

E se senti di avere addosso qualche etichetta che ti sta stretta, che non trovi utile a spiegare quello che vivi e non ti aiuta a risolvere la tua difficoltà, fermati ad esplorare: sotto l’etichetta c’è qualcosa di te che chiede di essere conosciuto più da vicino. Possiamo farlo anche insieme se vuoi, dal vivo o su skype.

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Psicologa delle relazioni interpersonali. Amo accogliere e accompagnare verso il cambiamento le persone che attraversano un momento critico.

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