Sto preparando le valigie per andare in montagna. Ogni anno, ad agosto, torniamo ad osservare paesaggi sempre nuovi, da una valle diversa. È un posto che ho imparato a sentire casa da adulta, perché la me bambina, d’estate, conosceva solo il mare. Un mare in cui non sempre circolava aria di piacere, ma spesso c’erano folate di sacrificio.
Ma questa è un’altra storia, che forse ti racconterò un’altra volta.
La montagna, dicevo, è diventata un luogo in cui tornare da quando sono grande, e da che ho imparato a stare con me.
Uno di quei posti dove ritrovo l’essenziale, e mi ricordo chi sono quando smetto di fare, correre, spiegare.
Un certo tipo di silenzio
Non porto molto con me. Qualche vestito comodo, qualche libro che mi accompagni, un quaderno, scarpe buone per camminare. Ma quello che cerco davvero non è qualcosa da mettere in valigia. È più sottile, quasi invisibile.
Una qualità dell’aria. Un suono rarefatto. Una presenza. Qualcosa che somiglia al silenzio.
Non parlo del silenzio assoluto, quello che a volte mette a disagio. Parlo di quel silenzio vivo, in cui il mondo non scompare, ma si fa più nitido.
Succede camminando nel bosco, quando il respiro rallenta. O in certe ore del pomeriggio, quando tutti dormono e fuori si sente solo il canto lontano di una cicala. Succede quando la mente smette di rincorrere tutto e, per un attimo, possiamo semplicemente stare.
A me capita spesso lungo un sentiero. Il rumore dei passi sulla terra, il fruscio degli alberi, il corpo che si muove senza fretta.
E poi quel momento – silenzioso, appunto – in cui mi accorgo che sto respirando meglio, e non solo per l’aria più pulita.
È la testa che si è fermata. Il cuore che si è seduto un attimo.
Ci manca? O ci spaventa?
C’è chi dice che gli manca, il silenzio. Ma per molti, non è una mancanza. È un disagio. Il silenzio può sembrare troppo.
Troppo vuoto. Troppo lento. Troppo nudo. Un terreno instabile in cui si rischia di sentire cose che non si vogliono sentire.
Ricordo una paziente, qualche tempo fa, che mi disse: “Se non metto la radio appena entro in casa, mi sale un’ansia strana. Non mi piace il silenzio. È come se mi crollasse addosso qualcosa.”
Aveva imparato a riempire ogni spazio: con parole, cose da fare, notifiche, chiamate, persino musica di sottofondo che nemmeno ascoltava davvero. Tutto pur di non restare sola con sé stessa.
Nel tempo, aveva associato il silenzio al vuoto, e il vuoto a una mancanza di senso, di direzione, di valore.
E come darle torto?
Anche noi, spesso, lo evitiamo, lo copriamo, lo riempiamo. Con conversazioni, serie tv, podcast, liste mentali, notifiche, pensieri a ciclo continuo. Non per scelta, ma per timore di restare lì, soli con noi stessi, con tutto quello che abita sotto la superficie.
Eppure, da qualche parte, forse, abbiamo una nostalgia confusa di quel silenzio che ancora ci mette in difficoltà.
Non per la sua assenza, ma per la presenza che potremmo incontrare lì dentro. Una parte di noi più autentica. Più vera.
Che non chiede niente, solo di essere ascoltata.
Adesso il silenzio è un posto in cui sto bene. Un posto che mi accoglie. Ma ci ho messo tempo. Non è sempre stato così.
All’inizio mi sembrava quasi ingombrante. Non sapevo cosa fare, come starci dentro. Lo coprivo con la radio accesa, nelle prime case da fuorisede. Con le telefonate, con i pensieri da inseguire. Come spesso facciamo, senza accorgercene.
Ma chi incontriamo, quando ci fermiamo?
E chi troviamo davvero, lì, ad aspettarci? Forse è proprio questo che ci spaventa: che sotto il rumore, il fare, il correre, ci sia una parte di noi che non conosciamo bene. Che ci osserva in silenzio, da tempo.
Un’estranea che ci abita dentro? Forse sì. Una parte triste? O scoraggiata? Una che sente una mancanza, e non sa bene da dove arriva? Una parte che abbiamo trascurato, messo da parte, ignorato per andare avanti? Una parte che ancora non abbiamo imparato ad abitare?
Abbiamo paura di ascoltarla, perché temiamo che dica cose che non vogliamo sentire. Che ci ricordi ciò che abbiamo lasciato indietro. Che ci chieda cambiamenti che ancora non sappiamo fare.
Ma forse, non chiede nulla. Forse aspetta solo di essere riconosciuta.
E allora, cosa possiamo fare?
Possiamo indire un armistizio. Abbassare le difese, smettere di giudicare, accogliere. Oppure organizzare una festa di benvenuto – anche solo simbolica. Una parola gentile. Una passeggiata in silenzio. Una pagina scritta per lei.
Possiamo darle un appuntamento cortese. Sediamoci accanto a lei come si fa con chi si vuole conoscere.
Con gentilezza e pazienza. E chiediamole:Raccontami. Chi sei diventata? Che strada hai fatto?
Spesso diciamo: “Ho bisogno di staccare”. Ma forse, in fondo, vogliamo solo tornare.
A noi. A ciò che conta. A quello spazio interiore dove possiamo ascoltarci senza fretta, senza giudizio.
Dove possiamo stare in compagnia di noi stessi, anche quando è scomodo.
Il silenzio non sempre arriva da solo. A volte va scelto, coltivato, difeso. Anche solo per qualche minuto al giorno.
Allora ti lascio una domanda da portare con te, in questa estate che comincia o continua: Quando è stata l’ultima volta che hai incontrato davvero il silenzio?
Non quello acustico, ma quel tipo di silenzio che ti permette di sentire chi sei. Che non ti distrae, ma ti avvicina.
Che non ti lascia solo, ma ti fa compagnia.
Se vuoi, puoi rispondere. Con una frase, un’immagine, un pensiero che ti accompagna. Oppure puoi restare lì. Semplicemente in ascolto.


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