C’è stato un momento, qualche sera fa, in cui ci siamo messi a tavola tardi, stanchi, la cucina in disordine, la giornata appesa tra mille pensieri. Eppure abbiamo cominciato a parlare. Di noi, dei bambini, degli incastri delle settimane estive da organizzare. Un flusso che sembrava tenerci vicini, come se il semplice fatto di parlare potesse bastare. Come se fosse già un ponte tra le nostre rive.
E invece, a un certo punto, mi è arrivata addosso una sensazione strana. Ero ancora affamata. Come se, nonostante tutte quelle parole, fossimo rimasti ognuno sul proprio argine. Cosa non ci stavamo dicendo? Di noi, intendo.
Parlare tanto non è sinonimo di intimità
Il punto è proprio questo: parlare non basta. Neanche parlare tanto. Neanche saper litigare bene.
Per quanto possa sembrarci il contrario, possiamo riempire serate intere di dialoghi ordinati, ben argomentati, e restare comunque lontani. Possiamo convincerci che la comunicazione sia fluida, quando in realtà è solo lucida. Resta in superficie. Resta nella testa.
A volte parliamo sulle cose, delle cose, ma non ci lasciamo davvero toccare dalle cose. E così, senza accorgercene, la distanza cresce. Una distanza educata, ma pur sempre distanza.
Il vero contatto nasce da un altro luogo
Non succede solo a me, certo. Una donna, in seduta, mi ha raccontato una scena tenera e cruda.
Era sul punto di iniziare una discussione con la partner. Lei le aveva detto una frase che, in altri tempi, avrebbe fatto partire una raffica di spiegazioni e recriminazioni. Ma quella sera, qualcosa è cambiato.
Ha fatto un respiro e ha risposto: “Questa cosa mi fa sentire fuori posto. Non so bene perché, ma mi succede così.”
Mi ha detto che è stata la prima volta in cui si è mostrata senza dover spiegare tutto, senza chiudere subito la vulnerabilità con un ragionamento. E in quello spazio, qualcosa si è aperto anche nell’altra.
“Hai fatto bene a dirmelo così”, le ha risposto. Erano ancora diverse, ma finalmente vicine.
L’intimità ha bisogno di un altro linguaggio. Uno che non si impara solo leggendo libri o esercitandosi nei conflitti costruttivi. Un linguaggio che nasce dal contatto emotivo, non dalla padronanza dialettica.
E quel contatto non si improvvisa. Richiede che ciascuno di noi, prima di tutto, sia disposto a stare a nudo davanti a sé stesso: guardare ciò che sente, ciò che teme, ciò che desidera. E poi -solo poi – avere il coraggio di offrirlo all’altro. Non come una verità da spiegare, ma come una pelle da mostrare.
Rivelarsi invece di spiegare
L’intimità non si conquista parlandone. Si costruisce rivelandosi. Con gesti piccoli, a volte. Uno sguardo che non si sposta. Una pausa che accoglie. Una parola che non spiega, ma mostra. “Mi sento perso.” “Mi manca il tuo sguardo.” “Ho paura che non ci capiamo più.”
Parole così, disadorne, ma vere. Che vengono da dentro e arrivano a toccare l’altro.
Da dove nascono le nostre parole?
In fondo, forse dovremmo chiederci meno spesso quanto parliamo tra noi, e più spesso da dove arrivano le nostre parole. Se dal bisogno di avere ragione o da quello di essere visti. Se da un copione ben imparato o da uno spazio vulnerabile. Perché è solo quando smettiamo di proteggerci che possiamo davvero incontrarci. Anche senza parole, anche restando semplicemente li.
E forse, questa sera, quando ci siederemo a tavola, e mi ritroverò stanca e piena di pensieri, proverò a lasciarmi vedere un po’ di più. A guardare meglio. Senza dover spiegare nulla. Anche solo con un silenzio che dice “Ci sono. E tu, dove sei adesso?”.


Sono una donna che lavora a tempo pieno e Mi sento spesso dire : « per me puoi prenderti tutti gli impegni che vuoi ma poi non dirmi che non ce la fai a star dietro la casa come vorresti » i mie impegni sono Parucchiere ed estetista 1 volta al mese e da 2 mesi canto in un coro ed abbiamo le prove il lunedì e qualche volta al sabato perché il 30/11 abbiamo un concerto . Lui invece oltre il lavoro capita che sta via o tutto il giorno o anche 2/3 gg per fare di kart. Quando vengo attaccata per difendermi rinfaccio e vado in protezione .. questo scatena una lite forte e molte volte anche violenta . Come posso invece trasformare la lite in qualcosa di costruttivo ? Cosa vuole dirmi accusandomi ? Perché ?
Ciao Anna, grazie per aver condiviso qualcosa di così sensibile.
Ti dico una cosa con molta cura: quando una lite diventa violenta, o quando uno dei due tende a svalutare bisogni ed emozioni dell’altro, non siamo più in uno spazio che si può “trasformare” con le parole.
In quei momenti la priorità non è capire perché l’altro lo faccia, ma proteggerti ed esimerti dallo scambio.
Non possiamo convincere qualcuno che i nostri bisogni hanno valore mentre quella persona li sta invalidando.
E non è tuo compito “spiegare meglio” dentro una dinamica che ti mette sulla difensiva o ti fa sentire attaccata.
Quando questo accade, la cosa più sana è fermarsi, uscire dal confronto e riconoscere tu per prima che i tuoi bisogni: il tempo per te, il riposo, la cura di ciò che ami, hanno dignità, anche se in quel momento non vengono riconosciuti.
Le domande da portare con te forse sono altre:
Come sto quando vengo svalutata? Di cosa ho bisogno per sentirmi al sicuro mentre parlo? Quali confini mi permettono di non perdere me stessa nel conflitto?
Il conflitto può diventare costruttivo solo quando c’è rispetto reciproco.
Quando questo manca, la cosa più importante è tornare dalla tua parte, con gentilezza.