Ci sono momenti in cui vorremmo solo scappare. Dalle emozioni che ci travolgono, dai pensieri che affollano la mente, dalle situazioni che ci sfidano più di quanto vorremmo. È profondamente umano: la mente cerca vie d’uscita, strategie per alleggerire il peso dell’istante. Eppure, proprio in quei momenti, abbiamo un’altra possibilità, meno immediata ma infinitamente più trasformativa: restare. Stare con ciò che c’è.
È successo anche l’altra sera: stavo cercando di addormentare mia figlia, ma lei si dimenava, piangeva e si agitava tra le mie braccia. Era esausta, eppure il sonno non arrivava. Sentivo dentro di me crescere una tensione sottile, un senso di frustrazione. Volevo solo che chiudesse gli occhi, che quel momento faticoso passasse. La mia mente ha iniziato a divagare: se solo si addormentasse subito… quanto durerà ancora? perché oggi è così difficile?.
Poi, un respiro più profondo. E mi accorgo che anche io ero tesa, che la stavo cullando con impazienza, più che con presenza. Allora provo a fare qualcosa di diverso: mi fermo. Sento il peso del suo corpicino contro di me, il calore del suo respiro, il ritmo irregolare della sua agitazione. Lascio andare la lotta. Smetto di resistere e provo accogliere il momento per quello che è.
E piano piano, qualcosa cambia. Non subito nel suo sonno, ma dentro di me. Si fa più spazio, c’è meno resistenza. Lei, come ogni bambino, percepisce questa calma. E dopo un po’, si lascia andare anche lei.
Cosa significa davvero “stare” con ciò che c’è?
Stare non significa rimanere intrappolati nel dolore, né rassegnarsi a esso. Significa creare uno spazio dentro di noi per accogliere l’esperienza senza giudicarla, senza cercare di cambiarla subito.
Possiamo immaginarlo come l’atto di sedersi accanto a un’amica che sta vivendo un momento difficile: non cerchiamo di zittirla, non le diciamo di smettere di sentire quello che sente. Semplicemente, siamo lì con lei. Lo stesso possiamo fare con noi stessi.
Stare non è un gesto passivo. Non è un lasciarsi sommergere o un restare impassibili davanti a ciò che accade. È piuttosto una scelta attiva: quella di esserci pienamente, senza fuggire né combattere.
Differenza tra rassegnazione e accettazione attiva
A volte confondiamo l’accettazione con la rassegnazione. Ma sono due cose molto diverse. La rassegnazione ci lascia immobili, ci spegne, ci fa credere che non ci sia nulla da fare. È come una resa.
L’accettazione attiva, invece, è una presa di posizione, una scelta. È guardare la realtà in faccia e dirci: questo è quello che c’è, adesso. Non mi piace, magari mi fa soffrire, ma posso trovare il modo di starci dentro senza lasciarmi sopraffare. Accettare non significa smettere di desiderare un cambiamento, ma partire da dove siamo, senza negare l’esperienza presente.
Il corpo come ancora per radicarsi nel momento presente
Quando l’onda emotiva è forte, il corpo può diventare la nostra ancora. Il respiro, il contatto dei piedi sul pavimento, la sensazione dell’aria sulla pelle: dettagli che spesso ignoriamo, ma che ci riportano subito all’adesso.
Possiamo provare, anche solo per un momento, a portare attenzione al nostro respiro. Sentire l’aria entrare e uscire. Osservare il movimento del petto e dell’addome. Non per modificarlo, ma semplicemente per esserci. Il corpo è sempre nel presente: tornare a lui significa tornare a noi stessi.
A stare si impara, poco alla volta. Non sempre ci riusciamo, e va bene così. Ma ogni volta che scegliamo di restare – anche solo per un momento, anche solo quando abbiamo le energie per farlo – coltiviamo una nuova possibilità. Quella di una vita meno in balia degli eventi, più radicata, più consapevole. Più nostra.
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Bellissimo
Sembra scritto apposta per me.
Stare.
Accettare.
Poi ci avcade qualcosa
E’ magia pura
Grazie
Grazie a te Gloria, per essere qui ❤️