L’altro giorno, una mia paziente mi ha detto: «Ho una settimana libera ma non riesco a stare ferma. Mi sento in colpa anche solo a pensare di non fare nulla. Come se stessi sprecando del tempo.»
Mi ha riportata a quelle mattine di domenica in cui, teoricamente, potremmo prendercela comoda.
E invece mi alzo presto per approfittare del tempo silenzioso mentre la casa dorme: mi metto a leggere, preparo una lavatrice, rispondo a qualche messaggio rimasto indietro, faccio la lista delle cose da fare.
Oppure, peggio ancora, quando sto ferma con il mio caffè… ma la testa corre.
Ti è mai capitato?
Di sentirti quasi più stanco o più affaticata dopo una giornata libera che dopo una giornata piena.
Non è pigrizia. Non è incapacità di organizzarsi meglio.
È l’effetto collaterale di un’idea molto radicata: che il tempo ha valore solo se è riempito. Solo se serve a qualcosa. Solo se produce un risultato.
Mi è venuta in mente anche una coppia che ho incontrato di recente in studio. Lei aveva studiato ogni dettaglio della vacanza: itinerari, tappe, musei, dove mangiare. “Quando ci ricapita? Dobbiamo approfittarne!”. Lui, invece, faticava a starle dietro. Avrebbe voluto dormire un po’ di più, seguire l’umore del giorno, prendersi qualche ora per non fare nulla.
Ma ogni volta che si fermava, si sentiva in difetto. E lei, dall’altra parte, si ritrovava sola nella fatica di tenere su tutto quel programma.
A entrambi sembrava di non godersi davvero il tempo insieme. E in sottofondo, lo stesso equivoco: che il riposo valga solo se ben speso, se fruttifero, se pieno.
Come se dovessimo meritarcelo, anche in vacanza.
La trappola della prestazione anche nel riposo
C’è una cosa subdola che succede: anche quando ci fermiamo, portiamo con noi lo sguardo del fare.
Ci mettiamo lì con un libro, ma dopo qualche pagina ci chiediamo se stiamo leggendo abbastanza.
Usciamo a camminare, ma teniamo il contapassi attivo. Andiamo in vacanza, ma ci assicuriamo che tutto “valga la pena”.
Abbiamo interiorizzato così tanto la logica dell’efficienza che anche il riposo deve diventare utile, ottimizzato, misurabile.
E se non ci fa sentire subito meglio, iniziamo a pensare che non serva a nulla.
Ma il riposo -quello vero- non dà risultati immediati. Non ci sistema in mezz’ora. Non ci rende più lucidi all’istante.
Al contrario: spesso, nei primi momenti in cui rallentiamo, ci sentiamo persi, vuoti, irrequieti.
Perché fermarsi ci mette a contatto con ciò che abbiamo evitato finché eravamo impegnati.
E questo, a volte, fa paura.
Il rumore che emerge quando tutto tace
Penso a quei primi giorni di ferie in cui si litiga più del solito.
Oppure ci sentiamo strani, inquieti, malinconici. Come se non fossimo capaci di rilassarci.
Ma cosa succede davvero?
Succede che il corpo rallenta. E nello spazio lasciato libero, la mente fa rumore.
Comincia a emergere la stanchezza accumulata, il malessere lasciato in sottofondo, le emozioni che non abbiamo avuto tempo di sentire.
Succede che -nel silenzio- ritorniamo a noi. E magari ci accorgiamo che non ci sentivamo da un po’.
E allora no, non è tempo perso. È vita che torna a farsi sentire, appena le lasciamo spazio.
È un diritto, non un lusso
Per questo oggi voglio ricordarlo qui, a me, a noi: riposare non è tempo perso. Non è qualcosa che va meritato.
Non è una concessione da parte del mondo.
È un diritto.
È un bisogno.
È un modo per dire a noi stessi: “Io valgo, anche quando non produco niente.”
E se per riuscirci hai bisogno di qualche giorno, va bene.
E se ti sembra difficile, o inutile, o fastidioso, va bene lo stesso.
Stai disabituando il tuo corpo alla fretta.
Stai imparando di nuovo ad abitarti.
Se ci va, possiamo provare a portare con noi questa domanda:
“Cosa potrebbe nutrirmi oggi? Cosa mi farebbe bene, senza doverlo meritare?”
Magari è un’ora senza notifiche.
Magari è dieci minuti di silenzio con una bevanda fresca in mano.
Magari è lasciare una cosa da finire, per non lasciare te in sospeso.
Non tutto va fatto oggi.
Ma riposare, quello sì: ogni volta che puoi, ogni volta che serve. Anche adesso, se vuoi.


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