Qualche giorno fa mi sono colta a sperimentare, con un po’ di sorpresa, un forte senso di vergogna per il risultato di un lavoro che avevo portato a termine con fatica in un periodo denso, in cui ho sentito di avere poche risorse. Mi sono sentita come quando ho realizzato di aver condotto un intero colloquio di lavoro con il rossetto rosso fra i denti. O come quella volta alle superiori in cui durante l’intervallo abbassandomi mi si sono strappati i pantaloni e sono rimasta letteralmente in mutande.
La vergogna è un’emozione pungente e, in quei momenti, se potessimo ci vorremmo mettere al riparo dallo sguardo di tutti per non incontrare la loro valutazione. O meglio, temiamo la valutazione che pensiamo gli altri possano formulare su di noi mentre stiamo già facendo i conti con il nostro giudizio che ci mette cosi a disagio da volerci nascondere. Accorgermi della vergogna e del giudizio severo che avevo formulato su di me mi ha permesso di aprire un varco nuovo.
La fregatura dell’autostima
A bassa voce, ma ad alta intransigenza, mi stavo dicendo che quel lavoro non era fatto abbastanza bene. Mi rimproveravo per questo e non riuscivo a riposare in quell’imperfezione e nelle mie risorse di quel momento. Ci ho rimuginato diverse ore prima di trovare pace e so di non essere la sola ad ammonirsi o addirittura a mettere in dubbio il proprio valore quando qualcosa va storto o semplicemente non va come ci aspettiamo.
Lo so perché molte delle storie che ascolto sono farcite da questo sottofondo di emozioni spiacevoli legate al non sentirci mai abbastanza. Sono racconti aggrappati alla convinzione che, se avessimo un’autostima più solida, staremmo meglio. Magari saremmo più sicuri, più forti, più decisi. Una delle frasi più ricorrenti è proprio: “Il mio problema è che ho una bassa autostima”; un giovane uomo qualche giorno fa mi diceva: “Magari non sembra, mi vedi con i tatuaggi e do l’impressione di uno tosto, ma io non ho molta autostima”.
La fregatura dell’autostima sta nel fatto che, per crescere, si alimenta di esperienze di successo e di valutazioni positive da parte degli altri. È questo il paradosso: imparo a credere in me attraverso situazioni in cui mi sono sentito di valore, grazie agli apprezzamenti e alle approvazioni che ho ricevuto dall’esterno. Pian piano il sapore di questi scambi si fa abitudine, diventa una ricetta familiare che riproduco sempre più facilmente, allentando il bisogno di conferme fuori da me stesso.
Perciò, desiderare di far crescere la nostra autostima per stare bene ci invita a rimanere dentro la logica del giudizio e della valutazione. E così facendo rimane scoperta dentro di noi tutta quell’area di esperienze che hanno a che fare con il fallimento, con la possibilità di sbagliare e deludere qualche aspettativa nostra o degli altri.
E se, invece, i sentimenti positivi per noi non provenissero dalla mente ma dal sentire?
La self-compassion ci riappacifica
In italiano si dice auto-compassione ed è una parola che non suona bene, ci rimanda al significato di autocommiserazione e, mi rendo conto, non è uno scenario emotivo allettante. In verità significa attenzione affettuosa, quella di cui abbiamo così tanto bisogno quando siamo in difficoltà e che possiamo rivolgere a noi stessi quando non ci piace ciò che abbiamo fatto, come siamo stati o quando le cose non sono andate come ci saremmo aspettati.
Questo sguardo attento e affettuoso può essere risanante, riappacificante. Entra in gioco quando l’autostima ci abbandona, non è sensibile alla nostra performance e non dipende dai risultati che abbiamo raggiunto, ma ci permette di abbracciare quello che siamo, momento per momento, mettendoci in connessione anche con l’imperfezione degli altri esseri umani. Ci permette di sostituire vergogna e autocritica con la comprensione e la gentilezza.
Come possiamo allenare questo sguardo verso di noi?
Quello che mi ha aiutato quel giorno è stato fermarmi, fare un passo indietro rispetto all’istinto di nascondermi per accorgermi della qualità del pensiero che accompagnava la mia vergogna (Con quale giudizio sto facendo i conti?). E ho lasciato che alcune domande mi guidassero ad esplorare quello che avveniva dentro per aprire la strada a un nuovo modo di consolarmi. Ad esempio:
- In che modo quello che è accaduto, quello che ho fatto o non fatto cambia la mia vita o il mio valore?
- Che traccia rimarrà di questa esperienza fra un anno?
- Succede anche ad altri?
- Posso permettermi questo errore? Posso essere anche questo?
La vergogna si nutre di uno sguardo arcigno, a volte crudele, ma si scioglie quando facciamo spazio dentro di noi alla possibilità di essere anche fragili e imperfetti. Mi sembra che perda consistenza quando riconosciamo che siamo tutti nella stessa barca: anche il mio vicino per la strada oggi ha sbagliato qualcosa e può avere incontrato una delusione per se stesso. Forse anche tu che stai leggendo hai fatto questa esperienza. Il valore dell’autostima si ridimensiona quando il fallimento, gli eventi problematici e dolorosi diventano un’occasione per sentire l’appartenenza al genere umano, quando trasformano momenti di isolamento in vicinanza
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