Ogni mattina, prima di entrare in studio incontro un vicino, scambiamo qualche frase di circostanza insieme ai saluti: di solito mi chiede come va o come sto, ma non include che possano esserci da parte mia risposte poco entusiaste. Essere stanchi o affaticati non va bene, ad esempio; lo capisco dai commenti che si affretta a fare subito dopo: “non c’è tempo per essere stanchi, sempre avanti!, mi ha detto l’altro giorno. Se io ricambio la domanda, la sua risposta è standard: Alla grande! Per forza!. 

È un signore garbato e le sue risposte mi strappano un sorriso e allo stesso tempo mi ricordano che spesso non chiediamo per sapere dell’altro, per aprire una conversazione, chiediamo per ricevere una conferma sul nostro modo di vedere il mondo, per dire a voce alta qualcosa di noi.

Chiedere -e chiederci- “come stai?” non è una cosa semplice, è un piccolo gesto coraggioso durante le nostre giornate. Trovare una risposta autentica -e non preconfezionata- richiede energie e consapevolezza. E anche uno spazio e un tempo per essere intimi, con noi stessi e con l’altro.

Più spesso sorge dentro di noi una sensazione di fretta, il desiderio di tenere sotto controllo con le nostre parole e le nostre risposte, le sensazioni a cui non riusciamo a dare un nome, le preoccupazioni sotterranee che ci portiamo dentro.

Succede spesso anche nella stanza della terapia: talvolta la persona che ho di fronte si dice spaventata, agitata, triste e poi si affretta ad aggiungere che “non è nulla di grave”. Lo dicono a me? Lo dicono a se stesse? Io penso che possiamo sempre occuparci di come stiamo, non occorre sia grave.

Evitare per tenere tutto sotto controllo

È una forma di ansia, quella che ci porta ad archiviare domande, quella che ci spinge a sminuire le nostre emozioni o quelle degli altri (che motivo hai di essere stanco? triste? stressato?). Rispondiamo a quest’ansia talvolta evitando, provando a distrarci e non pensare alle cose che sono insoddisfacenti o che fanno male.

Non è l’ansia vistosa degli attacchi di panico, quella che si riconosce – in noi e negli altri- perché diventa ostacolo e fa sobbalzare il cuore e il respiro: è un timore ed una preoccupazione più silenziosa e profonda che prende forme diverse.

Ha la forma della fretta di entrare ed uscire da uno scambio in un modo preconfezionato, di evitare di dirci come stiamo veramente, di sentire e fare spazio agli alti e bassi del nostro umore e delle nostre energie. Oppure può prendere la forma del distrarsi smangiucchiando quando arriva un’emozione, della preoccupazione della solitudine, della perdita, della paura dei conflitti, del preoccuparci sempre per l’altro, del non sentirci abbastanza, del senso di colpa che arriva quando non ci sentiamo adeguati nei nostri ruoli.

Evitiamo di dare un nome a ciò che sentiamo sperando che le sensazioni spiacevoli possano svanire semplicemente non prestando attenzione alle cose spiacevoli. Cosi, senza saperlo, autorizziamo l’ansia a crescere. E alla fine abbiamo tutto sotto controllo, tranne l’ansia. Diciamo che nella nostra vita va tutto bene, eppure non ci sentiamo bene, c’è l’ansia. Perché?

E se ci prendessimo tempo per cucire le nostre parole (ciò che siamo disposti a dirci) con quello che sentiamo? Se ci fosse uno spazio dentro di noi per conoscere quello che sentiamo e ospitare quello che ancora non conosciamo?

Non otterremo di avere tutto sotto controllo, ma acquisteremo una maggiore padronanza delle nostre emozioni. Diventeremo padroni di casa nella nostra emotività. Impariamo a farlo insieme in questo percorso di gruppo, un respiro per volta.

 

 

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Psicologa delle relazioni interpersonali. Amo accogliere e accompagnare verso il cambiamento le persone che attraversano un momento critico.

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