Era una mattina come le altre, con il cielo grigio e l’aria frizzante. Simone è il primo che arriva nella stanza delle parole, con le mani ancora ghiacciate e con un’urgenza da condividere: è turbato da qualcosa che era appena accaduto.

Cosi mi trascina nel suo risveglio: si era alzato un po’ in ritardo, era entrato in cucina, e aveva trovato sua moglie che lo guardava con un’espressione preoccupata e la sua tazza di caffè tra le mani. Stai bene? gli aveva chiesto, con una voce che gli sa di un’attenzione in più, quasi come se fosse in cerca di una confidenza, di un dolore nascosto da dissotterrare.

Lui l’ha guardata sentendo quel miscuglio di fastidio e imbarazzo che lo invade ogni volta che qualcuno lo tratta con troppa delicatezza: basta con questa storia, dice, non voglio che tu pensi che ho bisogno di essere compatito. Non mi serve la tua pietà. Mi racconta che le sue parole erano diventate dure e impulsive, come se ogni sfumatura di comprensione ricevuta significasse accogliere una forma di debolezza che non voleva accettare. Io non sono un poverino da salvare. Sono solo triste, non malato.

Quando mi racconta questo episodio che ancora lo turba, sento il suo disagio e il fastidio che nasce dalla vicinanza che la moglie gli ha offerto vedendolo in difficoltà. Non voglio essere compatito, mi ripete più volte.

Compassione non significa commiserazione

La parola compassione in italiano ha effettivamente una connotazione che può essere ambigua, e in molti casi viene interpretata come una forma di pietà o commiserazione. Questo nasce dal fatto che la compassione viene spesso associata a un sentimento di tristezza o di dispiacere verso la condizione di qualcun altro, con un senso di superiorità che può farla sembrare un modo di “guardare dall’alto in basso”.

Cosi, quando diciamo non voglio fare compassione, in genere esprimiamo il nostro desiderio di non essere visti come vittime o come persone che suscitano pena. Non vogliamo essere compatiti perché non vogliamo sentirci deboli, impotenti e bisognosi d’aiuto. Al contrario, vogliamo essere visti nella nostra interezza e, anche se siamo in difficoltà, riconosciuti anche per le nostre parti forti, autonome, ben funzionanti.

Tuttavia, se vogliamo esplorare la parola più in profondità, possiamo tornare all’origine perché è li che troviamo il suo significato autentico. La parola, come forse sappiamo, deriva dal latino –cum (insieme) e patior (soffro)- dunque soffrire insieme, avvicinare la sofferenza dell’altro (ma anche la nostra) con l’intenzione di alleviarla

In questa accezione più autentica, la compassione non implica sentirsi superiori o destinatari della pena altrui, ma piuttosto il riconoscere la sofferenza dell’altro -e la nostra- come qualcosa che appartiene a una condizione umana universale. È un sentimento che ci unisce, che non ci separa, e che, pur non eliminando la sofferenza, può portare a un supporto concreto o a una condivisione emotiva che conforta e allevia il peso del dolore.

Come può esserci utile la compassione

Adesso, ti starai chiedendo: in che modo la compassione, pur essendo una qualità che ci unisce, può esserci utile per il nostro benessere e nella nostra vita quotidiana?

E voglio fermarmi a riflettere proprio su questo punto, perché oggi la ricerca ha dimostrato quanto la pratica regolare della compassione (verso gli altri e verso noi stessi) sia fortemente connessa alla riduzione di stress e ansia, al miglioramento nella regolazione delle emozioni difficili, e, a livello relazionale, al rafforzamento delle connessioni sociali riducendo la sensazione di solitudine: quanto ne abbiamo bisogno in questo momento storico?

In effetti, la compassione ci aiuta a comprendere che, quando siamo in difficoltà, le nostre emozioni sono complesse e non dipendono da una nostra incapacità o da una parte difettosa dentro di noi.

Spesso, quando proviamo emozioni difficili, ci diciamo che non dovremmo sentirci così, che non dovremmo pensare in quel modo, e ci rimproveriamo duramente. La compassione, invece, ci insegna ad abbracciare la nostra umanità, a non giudicarci per le nostre vulnerabilità, ma a trattarci con la stessa gentilezza che riserviamo agli altri.

La difficoltà di Simone nel ricevere compassione nasce da un malinteso sul significato di quel gesto di vicinanza emotiva. La compassione, se praticata con consapevolezza, non è mai un atto di pietà, ma una forma di condivisione profonda che ci permette di affrontare le difficoltà con maggiori risorse, nonostante le nostre vulnerabilità. Ci aiuta a sentirci meritevoli di quello sguardo e di rimanere interi, anche quando ci sentiamo fragili.

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Psicologa delle relazioni interpersonali. Amo accogliere e accompagnare verso il cambiamento le persone che attraversano un momento critico.

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