L’altro giorno, durante un lavoro con un gruppo, ho avvertito un’aria di tensione. Lo esplicito, e pian piano qualcuno inizia a dare forma alla difficoltà: c’è poca comunicazione, non c’è tempo per farlo, non ci capiamo. Tre grandi classici.
In effetti, quando accolgo in terapia le coppie, il punto di partenza è quasi sempre lo stesso: non ci capiamo. Essere compresi nelle nostre relazioni è un bisogno fondamentale: ci fa sentire visti e accolti, di percepirci comprensibili. Spesso, è proprio attraverso la presenza emotiva dell’altro, che il nostro sentire trova legittimità.
Metterci a fuoco, chiarirci a noi stessi
Cosi, tornando al gruppo, decido di non fermarmi ai “titoli di copertina”, mi incuriosisco e invito il mio interlocutore a mettere a fuoco quale parte di sé sente di non essere stata compresa dall’altro. Iniziamo a lavorarci, ma presto mi accorgo di non riuscire a cogliere neanche io i suoi bisogni o le sue richieste. Non erano chiare neanche a lei, in fondo.
Così ci prendiamo il tempo di cercarli, per trovare le parole giuste: quelle che possano arrivare con immediatezza e chiarezza, trasformando la confusione in una condivisione autentica di un bisogno, in una richiesta concreta.
La mancanza di comunicazione è spesso sopravvalutata; la verità è che non è solo questione di parlare di più o meglio, ma di coltivare un’intimità con noi stessi, prenderci un tempo per metterci a fuoco, per dire con le parole i nostri bisogni. Come posso spiegare chiaramente all’altro ciò di cui ho bisogno, se prima non l’ho chiarito a me stesso/a? La connessione con l’altro nasce solo dopo aver incontrato e compreso un pezzetto di me.
Capire non significa farsi carico dei bisogni dell’altro
A questo punto, però, sorge spesso una confusione bambina: ci aspettiamo che, nel momento in cui l’altro capisce il nostro bisogno, lo accolga e se ne faccia carico. E se non lo fa? Se, pur comprendendoci, non può o non vuole rispondere a quel bisogno? C’è una parte bambina che pretende qualcosa? Se ti ho detto quello di cui ho bisogno perché non la accogli? Se ci tenessi a me, faresti qualcosa di diverso, visto che più volte te l’ho detto.
Qui serve fare un’inversione a U e tornare a noi stessi. Invece di restare bloccati nella frustrazione, possiamo imparare a confortarci, a prenderci cura di quella parte di noi che vorrebbe che l’altro fosse diverso, che cambiasse per venirci incontro.
Perché non è che non ci siamo capiti. È che l’altro, pur capendoci, resta libero di dire no, di essere se stesso/a. E possiamo stare con questa frustrazione, senza negarci la fatica, ma anche senza restarne schiacciati? Possiamo imparare a offrire a noi stessi il conforto, la comprensione e il sostegno di cui abbiamo bisogno?
L’arte dell’auto-conforto
La capacità di accogliere la nostra frustrazione nelle relazioni – con affetto e gentilezza – è una qualità adulta. L’auto-conforto ci permette di stare con l’altro senza dipendere dalla sua risposta. Di restare nella relazione senza perdere noi stessi (e senza chiedere all’altro di farlo)
Forse è questa la vera sfida: non solo capirci tra di noi, ma imparare a stare con ciò che l’altro non può darci. E imparare a prenderci per mano, darci un abbraccio, anche quando l’altro non lo fa. Allenare la nostra mente compassionevole serve anche a questo.
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