La prima cosa che mi colpisce quando ascolto una storia nuova sono le parole che le persone scelgono per raccontare se stesse. 

Ciascuno di noi utilizza un vocabolario personale che ruota intorno ad alcuni temi e parole chiave. A volte sono vocaboli che arrivano dalle cose che ci appartengono di più nel presente, altre volte intercalari o modi di dire che vengono anche dal passato, dalla casa in cui siamo cresciuti. Sono termini che raccontano il nostro modo di trattarci e di considerarci. E spesso non sono gentili.

Sono queste parole -pensate e sentite- che definiscono il nostro modo di parlare e stare con noi stessi. Prova a farci caso: quali parole usi generalmente per parlare di te? E cosa ti dici quando qualcosa ti va storto durante la giornata?

Penso sia utile portare attenzione alla qualità di quelle parole: sono gentili e incoraggianti? sono dure e svalutanti? Tendono a sfidarti o spronarti? Potremmo osservarle e sentire che effetto ci fanno per sapere se ci sceglieremmo come amici per noi stessi. 

Io spesso mi sono stata accanto con la voce di quelle insegnanti preoccupate di finire il programma per tempo e che esortano instancabilmente a migliorare, senza mai fermarsi ad osservare e sentire davvero quando ti brillano gli occhi e ti batte il cuore. Altre volte invece mi sono riscoperta come quelle amiche che non aspettano altro che incontrarti, a cui non importa cosa facciamo nel tempo in cui stiamo insieme -anzi meglio se improvvisiamo!- perché il programma più bello è essere li con te, essere insieme.

Come impariamo ad essere severi con noi stessi

Il modo con cui parliamo a noi stessi non è sempre tutta farina del nostro sacco: lo ereditiamo da tutto quello che ci hanno trasmesso le persone con cui siamo siamo cresciuti, e da come noi abbiamo interpretato il loro sguardo, le loro parole. Proviamo ad immaginare come potrebbe parlare a se stessa una persona che nella sua crescita si è sentita spesso dire “ma chi ti credi di essere!“? 

Nella stanza della terapia portiamo spesso l’attenzione alle parole che rivolgiamo a noi stessi nel presente, facciamo venire a galla da dove vengono e, un passo dopo l’altro, impariamo a cambiare narrazione, se non ci sta più bene. È il primo passo per ingentilire il modo con cui stiamo con noi stessi, per diventarci amici e riconoscere il nostro valore. Possiamo iniziare in qualsiasi momento dal chiederci:

  1. Riconosco cosa mi dico quando qualcosa non va come vorrei? come mi bacchetto generalmente, con quali parole? Direi le stesse cose al mio migliore amico?
  2. Dove ho imparato a trattarmi cosi? questa vocina o queste parole a chi appartengono? È la mia o mi ricorda qualcosa?

Non basta ripeterci frasette diverse

Cambiare dialogo interno non significa provare a dirci e ripeterci -posticciamente- parole e frasette che suonano diversamente.

Una partecipante ad un workshop che ho tenuto recentemente mi riferiva di dire a se stessa cose cosi: “sei stata brava, la prossima volta puoi fare meglio”“Non devo, ma voglio fare questa cosa”, ma riportava non fosse abbastanza per cambiare le cose. Ci credo. Anche mentre lo raccontava nel gruppo, il suo tono e la sua disposizione emotiva trasmettevano -aldilà delle parole- un senso di pretenziosità più forte di quelle frasette, che perciò suonavano artificiali, come delle formulette applicate diligentemente per mettere in pratica la lezione.

Ma quanto siamo credibili per quel bambino dentro di noi se non incarniamo una qualità di gentilezza e accettazione che passa dall’affetto per noi?

È un pensiero un po’ ingenuo quello che ci invita a trattarci come ingranaggi fatti di sola razionalità: può bastare sostituire pensieri e parole per sentirci diversi? Non rischiamo forse di darci l’ennesima istruzione, nutrendo la speranza di cambiarci continuando a coltivare la correzione?

Cambiamo solo quando comprendiamo emotivamente la funzione della nostra durezza: a cosa ci serve – o ci è servita- la nostra severità e la nostra autocritica? Da cosa ci ha messo in salvo?

Perché ci critichiamo e come diventiamo più clementi con noi stessi

Abbiamo imparato a criticare noi stessi il più delle volte per assicurarci di essere accettati da più persone possibile e per prevenire –giocando d’anticipo- le critiche che gli altri potrebbero muoverci. Come a dire: prima che lo fai tu, ci penso io. 

Spesso siamo stati criticati perché cosi credevano di spronarci, per metterci al riparo dalla possibilità di sbagliare. Continuiamo a farlo anche noi ma non funziona perché ci ha insegna che andiamo bene quando facciamo bene una data cosa. E su questa confusione interna, di sentire, nascono molte delle difficoltà e dei disagi che sentiamo nella relazione con noi stessi.

Cambiamo davvero diventando più morbidi e meno pretenziosi con noi stessi quando si trasforma intimamente quel modo di parlare a noi stessi, perché è cambiato il nostro sentire, prima delle parole.

Succede quando cominciamo ad ascoltarci ed osservarci come farebbe un genitore amorevole che ha l’obiettivo di comprendere prima che di giudicare e correggere.

E’ una possibilità che possiamo darci sempre, che possiamo imparare ad ogni età, ogni giorno. Lo facciamo quando iniziamo a guardarci dentro, con un’indole curiosa e accogliente, fidandoci di quello che sentiamo per noi e che gli altri spesso ci rimandano.

Se ti interessa approfondire questo tema, ci troviamo il 28 Ottobre alle 19 su zoom, nel nostro appuntamento gratuito riservato agli iscritti alla newsletter. Parliamo di SEVERITÀ E AUTOCRITICA: COME AMMORBIDIRE QUESTI ASPETTI DI NOI? Se vuoi iscriverti puoi farlo qui!

 

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Psicologa delle relazioni interpersonali. Amo accogliere e accompagnare verso il cambiamento le persone che attraversano un momento critico.

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