L’altra sera nel rito della buonanotte leggo a mio figlio la storia de “Il mostro in cucina”: i protagonisti sono due bambini che si allertano quando sentono dei rumori spaventosi provenire dal corridoio e poi dalla cucina; sono soli, senza la mamma e senza il fratello maggiore. Terrorizzati da quei rumori imprevedibili e sconosciuti, cominciano a fantasticare ed entrambi convengono che sia un tale mostro verde evaso da un gioco; fanno un piano per salvarsi, scappano, infine chiedono aiuto. La descrizione dello scenario pericoloso è molto dettagliato e Andrea segue attento e incuriosito il piano di salvataggio dei due protagonisti, ma poi velocemente mostra una faccia sorpresa e un po’ delusa quando arriva il finale: i rumori molesti provengono da una lastra di ghiaccio gocciolante nel frigorifero. Niente di pericoloso, tante investigazioni per nulla! Abbozza un sorriso un po’ deluso perché evidentemente si aspettava un finale più avvincente. Pazienza, ci abbracciamo e buonanotte.

Questa storia semplice mi torna in mente in due occasioni nei giorni successivi nella stanza della terapia mentre ascolto due persone. Ripenso al mostro verde perché spesso anche noi adulti come quei bambini costruiamo narrazioni accurate intorno a quello che non conosciamo e che, spesso proprio per questa ragione, finiamo per temere.

Per schivare territori emotivi sconosciuti (come l’imbarazzo, la vergogna, la tristezza, l’impotenza o la sensazione di non farcela) spesso finiamo per costruire nella nostra mente storie e scenari complicati, e a volte molto allertanti, per allontanarci dall’esperienza cosi com’è.

Per proteggerci dal mostro verde, nelle nostre giornate ci rifugiamo nelle cose che conosciamo già perché sapere ci assicura un senso di sicurezza e, al contrario, quello che non conosciamo in qualche misura diventa per noi pericoloso.

Altre volte ci rintaniamo in supposizioni che diventano delle vere e proprie storie che ci raccontiamo su noi stessi o sugli altri. Sono le previsioni e le aspettative su come dovrebbero andare le cose o su come dovremmo essere noi per andare bene e per farcela al meglio. È la nostra mente narrativa in azione che tesse storie sul passato e fa previsioni sul futuro, per orientarsi in modo prevedibile. Siamo noi con le nostre difese che tentiamo di prepararci e proteggerci.

Ma quanto ci appesantiamo, ci logoriamo e ci priviamo di leggerezza e vitalità?

Come dovrei essere io, come dovrebbe essere l’altro 

Le narrazioni che elaboriamo su come siamo noi o su come sono (o dovrebbero essere) gli altri sono sono logiche e rassicuranti, ma quando ci identifichiamo completamente con queste storie il più delle volte ci allertiamo, ci angosciamo, ci appesantiamo, ci blocchiamo perché ci distacchiamo dall’esperienza cosi com’è nel presente.

Nella stanza della terapia incontro tante storie e, se dovessi trovare un tratto che le accomuna tutte direi che è il senso di sofferenza che nasce quando sperimentiamo di essere diversi da come ci aspettiamo di dover essere o quando facciamo l’esperienza che l’altro non è -o non sa essere per noi- proprio come desideriamo.

Di noi diciamo di essere pigri, troppo sensibili, che dovremmo essere più forti, più decisi, capaci di lasciarci scivolare le cose o di fidarci di più. E gli altri quando mai sono il genitore che avremmo voluto, il partner che desideriamo, il figlio che ci aspettavamo, il datore di lavoro che dovrebbe essere?

Quando la nostra esperienza emotiva è diversa dalle nostre aspettative nasce un senso di delusione e dolore sordo a cui ognuno di noi risponde con le nostre personali difese, con creatività.

 

Il sollievo delle cose cosi come sono

La psicoterapia e i percorsi di mindfulness spesso non ci restituiscono la possibilità di diventare come desideriamo essere -almeno come nelle nostre fantasie all’inizio del percorso- e raramente ci permettono di ricevere dagli altri l’amore che desideriamo e che tanto ci è mancato. Ma qualcosa di eclatante succede comunque: impariamo ad incontrare le cose cosi come sono, conosciamo noi stessi e gli altri cosi come siamo e iniziamo a farci amicizia. Arriviamo a poterci dire “sono cosi, sono questa persona qui e va bene cosi”.

Succede quando iniziamo a smantellare l’idea di conoscerci già a menadito, e iniziamo ad incuriosirci su quello che sta accadendo dentro di noi, momento per momento. Con curiosità e con l’atteggiamento del principiante. Quando possiamo includere di non sapere e iniziamo a fidarci dalla leggerezza che proviene da questa pratica. Chandra Livia Candiani lo spiega bene cosi:

Imparando a meditare, sono entrata in familiarità lentamente, lentamente, con il non sapere. Mi accorgevo che meno sapevo più sperimentavo. E più tardi, cercando di passare agli altri la pratica della meditazione, mi sono accorta di come chi sa o crede di sapere molto sperimenta solo esperienze di seconda o di centesima mano, non è mai in intimità con niente, non trema davanti al non conosciuto e non si inoltra.

[…] Una buona pratica preliminare di qualunque altra è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi. Guardarsi attorno e lasciar andare il concetto di albero, strada, casa, mare e guardare con sguardo che ignora il risaputo. Esercitare la meraviglia cura il cuore malato che ha potuto esercitare solo la paura.

[da “Questo immenso non sapere”]

Esercitarci alla meraviglia non è il migliore augurio che possiamo fare a noi stessi? I prossimi percorsi di libroterapia e di mindfulness hanno questa intenzione: aiutarti a coltivare la leggerezza che nasce dal fare amicizia con noi stessi cosi come siamo.

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Psicologa delle relazioni interpersonali. Amo accogliere e accompagnare verso il cambiamento le persone che attraversano un momento critico.

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