Anche in terapia accolgo spesso questa preoccupazione di non essere all’altezza di questo ruolo, insieme alla paura di sbagliare e di creare traumi irreparabili. Forse è una questione tutta contemporanea quella di sentirci determinanti nello sviluppo dei nostri figli e del tutto responsabili della loro felicità. A volte ho l’impressione che essere genitori sia diventata una performance alla quale ci sottoponiamo, insieme alle altre.
Quando scivoliamo in questo meccanismo, come tutti i performer, guardiamo ai risultati, li monitoriamo, li cerchiamo. E bastano pochi segnali neutri per far nascere dentro di noi dei confronti e delle valutazioni sul nostro conto: osserviamo gli altri genitori e ci sembrano migliori (qualsiasi cosa voglia dire), nostro figlio preferisce l’altro genitore e noi pensiamo di non essere abbastanza; nostro figlio è di cattivo umore o si comporta in un modo problematico e noi ci attribuiamo la responsabilità.
Perché vogliamo essere bravi genitori
Passiamo buona parte della vita a dimostrare di essere bravi: bravi bambini, bravi studenti, buoni lavoratori, buoni genitori. Ma cosa cerchiamo e cosa evitiamo in questa ricerca di competenza? Da cosa ci vogliamo mettere in salvo?
Spesso rincorriamo la sensazione di sentirci sicuri, cerchiamo conferme e approvazione. E schiviamo la possibilità di sbagliare, di darci il permesso di farlo. Vorremmo evitare di fare gli errori dei nostri genitori, scongiurare il pericolo di diventare come nostra madre e nostro padre.
Come genitori però, tutta questa tensione a non sbagliare è anch’essa diseducativa: mette in campo un’ansia che da forma e sapore al modo in cui stiamo in relazione con i nostri figli. Forse il punto non è tanto non sbagliare con loro, semmai sapergli offrire un modello di come sappiamo stare con i nostri errori, quanto sappiamo confortarci e riparare.
Potremmo sollevarci anche dal compito di renderli felici, cosa che non è in nostro potere, ma coltivare la fiducia che sapranno costruirsi la loro felicità. Noi dal canto nostro possiamo fare spazio alla sofferenza che incontreranno, occupandoci anche della nostra in risposta alla loro, e mostrargli come sappiamo stare con le nostre emozioni difficili, con la nostra insicurezza, con le nostre imperfezioni ed errori.
Imparare a stare
Cosa trascuriamo quando siamo tutti impegnati a fare bene? Cosa mettiamo in secondo piano -di noi- ogni volta che non ascoltiamo noi stessi? come possiamo ascoltare e rispondere ai bisogni dei nostri figli se non frequentiamo i nostri?
Spesso impegnarci a fare-tutto-bene è un tappo che ci protegge dal sentire come stiamo quando le cose non vanno come vorremmo, quando non ci sentiamo capaci, quando sperimentiamo impotenza, vergogna e senso di colpa.
Il nostro strumento educativo per eccellenza è il nostro modo di essere nel mondo, non tanto con quello che facciamo. Non c’è nulla di utile che possiamo fare con i nostri figli se siamo disconnessi dai loro bisogni, se non sappiamo leggerli. Non possiamo farlo se non sappiamo stare con le nostre emozioni, se non abbiamo fatto amicizia con i bisogni che comunicano. Per questo non c’è nessun parent training che ci possa aiutare, abbiamo bisogno di partire dall’ascolto di noi stessi, per sintonizzarci sui bisogni dei nostri figli. Senza reattività ma con presenza e accettazione di tutte le parti di noi che incontriamo mentre siamo in relazione a loro. Educare, ascoltare è un percorso per imparare a fare proprio questo: ascoltare noi stessi per prenderci cura dei nostri figli.
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