Nella stanza delle parole ascolto spesso storie di persone che raccontano se stesse mentre sono continuamente impegnate a preoccuparsi per gli altri. Potremmo dire che proprio il prendersi cura degli altri -o il desiderio di non gravare troppo- è parte della storia, l’intenzione che muove i protagonisti.

Sono narrazioni intrise di generosità, piene di gesti accurati, di attenzioni riservate ai vissuti degli altri, ai loro bisogni.

Un partner che tiene tutto dentro per non ferire l’altro, un genitore che piange di nascosto perché teme di turbare il proprio bambino, figli che non raccontano i propri vissuti per evitare che i propri genitori si preoccupino, amici che declinano offerte di aiuto per non essere di peso, persone che si sentono chiedere “come stai” ed evadono la risposta per non caricare l’altro con le proprie emozioni e risultare cosi pesanti, inopportuni, molli, lamentosi.

Ognuno di noi ha una parte dentro di se che ci tiene ad essere (e mostrarsi) forte, preoccupandosi più degli altri. A volte però esageriamo e diventiamo allocentrici, tendiamo cioè a mettere sempre al primo posto il vissuto dell’altro. E ci sono ruoli -come quello dei genitori o di chi è impegnato in una relazione di cura- che ci predispongono a farlo più di altri.

Tutto meraviglioso, potremmo pensare. Non sempre: a volte, questa attitudine a prenderci a cuore l’altro può alimentare una certa fatica a metterci a fuoco rispetto ai nostri bisogni.

Soffriamo di un eccesso di empatia, ci sbilanciamo ad occuparci dell’altro, ci perdiamo nelle necessità di chi ci sta vicino e qualche volta, usiamo eccessiva compassione fino al punto da diventare come delle spugne e sentirci in colpa per il dolore che sperimenta chi ci sta vicino.

Se ci lasciamo preoccupare eccessivamente del carico emotivo degli altri, senza avere gli strumenti per contenere e confortare l’eco della nostra fatica, potremmo sviluppare la sindrome da empatia, detta anche “stanchezza da compassione”.

Alcuni equivoci sull’aver cura degli altri e sull’empatia

In un’epoca in cui come adulti sentiamo l’urgenza e la responsabilità di educare all’empatia i nostri bambini e ragazzi, mi pare che sfugga anche a noi cosa significhi essere autenticamente empatici, equilibratamente vicini all’altro, senza dimenticarci di noi. Le due cose, come si può intuire, sono collegate.

Essere empatici non significa mettersi nei panni dell’altro fino a sentire quello che sente l’altro, come in una sorta di contagio emotivo. Non significa neanche farci reattivamente carico di quello che sente (o potrebbe sentire) l’altro, cosi da “salvarlo” dalle emozioni spiacevoli.

L’empatia è una sensibilità che ci permette di comprendere quello di cui l’altro ha bisogno: questo accade grazie al fatto che possiamo sintonizzarci sull’emozione dell’altro e, in virtù di questo, possiamo ipotizzare la sua necessità. E’ un processo possibile solo se siamo distinti, se anche noi abbiamo familiarità con quell’emozione nella nostra vita, se l’abbiamo attraversata senza lasciarci travolgere.

Se non sappiamo ascoltare noi stessi, non sappiamo comprendere con raffinatezza gli altri. Al massimo sappiamo gestirli, sappiamo fare per loro. Ma capiamo bene che è tutta un’altra cosa.

Un eccesso di empatia diventa dannoso quando ci facciamo immediatamente carico dell’altro perché aiutare in quel caso non è una scelta consapevole ma un automatismo a cui non riusciamo a rinunciare. Se pensiamo di salvare l’altro da ciò che sente spesso non gli facciamo del bene: gli togliamo la sua responsabilità, gli sottraiamo uno sguardo fiducioso nelle proprie risorse.

E inoltre, così facendo, non di rado scappiamo da noi stessi.
Possiamo imparare a stare accanto. Contemporaneamente vicini al bisogno dell’altro e anche al nostro. 

 

Per chi (e perché) lo facciamo?

Qualche volta occuparci degli altri, prenderci cura di chi ci sta vicino (i nostri figli, il nostro partner, i nostri genitori), oltre ad essere un atto generoso, funge da potente ansiolitico. Mi occupo di te, cosi non penso a me. Lo faccio per te? Anche, ma a volte lo faccio soprattutto per non sentire me.

Essere utili e di aiuto agli altri è una scelta altruista e questi comportamenti ricevono una grande approvazione da parte di chi ci sta vicino. Diventiamo visibili per quello che facciamo, per ciò che diamo e questo rafforza l’immagine di noi stessi come persone valide e necessarie.

Ma chi siamo quando ci spogliamo di questo ruolo? Cosa rischiamo di sentire o pensare quando rinunciamo a questo incarico? Possiamo riservare la stessa compagnia e cura a noi stessi?

Se vuoi continuare ad approfondire questo tema lo facciamo insieme, nell’appuntamento gratuito di questo mese su Zoom. Ci troviamo il 24 Marzo alle 19 e parliamo di come esserci per l’altro (partner/figli) senza sacrificarci o perdere di vista noi stessi. Se vuoi raggiungerci, puoi iscriverti qui.

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Psicologa delle relazioni interpersonali. Amo accogliere e accompagnare verso il cambiamento le persone che attraversano un momento critico.

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