Dalla mia poltroncina e dalla stanza della terapia ascolto storie di adulti che incontrano emozioni che spesso li fanno sentire stranieri in casa propria: fuori posto, a disagio, inadeguati, terrorizzati. Emozioni che tutti noi, una volta diventati adulti, non vorremmo provare, perché ci fanno sentire bambini indifesi, vulnerabili, a volte inspiegabilmente tiranni, razionali e intransigenti.
In quella stessa stanza dove arrivano tanti perché con il punto interrogativo, il mio compito non è quello di dare consigli per aggiustare questi disagi ovviamente, ma di aiutare la persona che ho di fronte a decifrare queste emozioni, perché possano dirci di cosa ha bisogno proprio in quel momento.
Insomma, mi tocca rabbonire l’emozione straniera -e per questo mal tollerata, ignorata, incompresa- e invitarla nel salottino insieme a noi a raccontarci di più di qualche parte di noi che abbiamo dimenticato.
Cosi, in una stessa giornata mi capita di raccogliere il desiderio di non volerci più sentire sopraffatti dall’ansia quando siamo a lavoro, il senso di soffocamento che sentiamo dentro una relazione che diventa duratura, la rabbia che sperimentiamo e scaraventiamo verso il nostro partner o nostro figlio, la solitudine che incontriamo quando chiudiamo la porticina di casa, il senso di colpa verso nostra madre o nostro figlio, la tristezza per una perdita che ci logora. E poi ci chiediamo, caso per caso, di cosa parla quell’emozione, di cosa ha bisogno in quel momento la persona che ho di fronte.
Nella stanza della terapia frequentiamo quelle parte di noi stessi più sensibile, più bambina. Sono aspetti di noi che vorremmo nascondere, altre volte sbarazzarcene perché ci stanno antipatici, come quella zia criticona e burbera che ci indispone con le sue battute perché ci fa sentire la vergogna per essere più fragili o semplicemente diversi da come vorremmo essere. Altre volte sono aspetti che conosciamo bene ma ci sforziamo di tenere riservati agli occhi degli altri; li sveliamo solo quando ci innamoriamo, quando ci sentiamo profondamente al sicuro con qualcuno.
Spesso mi chiedono perché non lavoro direttamente con i bambini e credo che la risposta più vera sia che mi piace dissotterrare i bambini che abitano dentro i grandi, e intrattenermi con loro; per giocare, guardare le ginocchia sbucciate, piangere, soffiarci sopra e tornare a giocare. Al contrario di quanto si può pensare non è solo un lavoro gravoso perché insieme alle ginocchia sbucciate incontro quasi sempre il bambino geniale e spontaneo che freme di tornare a giocare: con una nuova scoperta, un senso di vitalità e di potere che non credeva di avere dentro se.
Essere bambini non vuol dire essere infantili
Vogliamo sbarazzarci delle nostre parti più sensibili perché pensiamo ci rendano infantili, emotivi, vulnerabili. Semplicemente confondiamo il permetterci di essere bambini con l’essere infantili. Non adulti, goffi, inadeguati.
Allo stesso tempo, frequentiamo il mondo degli adulti prevalentemente quando dobbiamo redarguirci come genitori esigenti: “Lo so che è stupido ma mi sento cosi” oppure “è sbagliato starci cosi male, non dovrei sentirmi cosi”, “sono triste senza un motivo”, “sono in ansia ma è solo una questione di testa”, “bisogna andare aventi ed essere positivi, non serve lamentarsi” e via dicendo.
Il mondo di questi adulti che ha parole severe ed esigenti talvolta parla la lingua dei nostri genitori o di altri adulti che abbiamo frequentato nella nostra vita e che continuiamo a portarci dentro la testa, in un dialogo interno serrato.
Quindi la vita si fa complicata: è difficile sia essere sensibili come i bambini, sia essere moderati come questi genitori nella testa.
Essere adulti, diventare genitori di noi stessi
Le cose si complicano quando diventiamo a nostra volta genitori: quei messaggi nella testa diventano messaggi e istruzioni che rivolgiamo ai nostri figli oscillando dall’esitazione per quello che facciamo, al senso di colpa per aver agito in un determinato modo.
D’altra parte, come possiamo accogliere e decifrare le emozioni dei nostri figli, se siamo a volte impacciati e a disagio con noi stessi quando sperimentiamo quelle stesse emozioni? Come possiamo regolare i comportamenti impulsivi e trascuranti dei nostri figli se anche noi siamo a disagio con i limiti, le regole, le imposizioni o le ribellioni?
La buona notizia è che, per fortuna per essere genitori non dobbiamo sapere tutto e non è necessario preoccuparci di essere bravi, ma ci è utile -perché ci conforta e ci sostiene- sapere perché facciamo quello che facciamo.
Ci aiuta, moltissimo, nella mia esperienza, saper ascoltare e convalidare il nostro sentire, insieme a quello di nostro figlio o di chiunque altro abbiamo di fronte.
Diventiamo adulti quando siamo capaci di incuriosirci di quello che stiamo vivendo noi come adulti – e come genitori, se lo siamo- allo stesso modo di come faremmo con un bambino alle prese con le sue prime paroline.
Cresciamo come adulti liberi e sicuri quando impariamo ad osservare noi stessi in modo da accudirci, proteggerci e sostenerci come farebbe un genitore affettuoso con il proprio figlio. Senza questo passaggio –ascoltare e comprendere noi stessi come farebbe un genitore affettuoso– non ci viene bene prenderci cura degli altri. Non è utile dimenticarci di noi. Come dice Thich Nhat Hanh,
Se non sai prenderti cura di te stesso e della violenza che ti porti dentro, non sarai in grado di prenderti cura degli altri. Occorre avere amore e pazienza per poter davvero ascoltare un compagno o un figlio. Se sei irritato non puoi ascoltare. Devi saper respirare con consapevolezza, accogliere la tua irritazione e trasformarla.
Per questa ragione, in questi giorni ho inserito nell’audiocorso ASCOLTATI PER CAPIRE TUO FIGLIO sei tracce di mindfulness per ascoltare noi stessi cosi da sintonizzarci meglio sui vissuti dei nostri figli. Se sei già iscritto le trovi accedendo alla tua area riservata, se non sei ancora iscritto puoi ascoltarle acquistando l’audiocorso: fino a domenica 31 luglio puoi farlo con uno sconto del 15%
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