Prendiamo tante decisioni nella nostra giornata: qualche volta nascono velocemente, impulsive, di pancia; altre volte indugiamo a riflettere perché sono decisioni che non vorremmo prendere, che temiamo ed evitiamo a lungo.

Alcune potremmo dire che nascono nella testa, lentamente, altre sorgono d’istinto, nella pancia e arrivano ai fatti troppo velocemente. Le mie scelte scaturiscono dalla pancia, ma poi ristagnano nella mente a lungo: hanno una gestazione molto lenta.

Spesso mi trovo ad ascoltare storie in cui le persone mi riferiscono di “sentire a pelle” o “di pancia” se una cosa fa per loro oppure no, se aprirsi o difendersi nello spazio di una relazione.

Questa risposta viscerale talvolta si accompagna ad una sensazione di fiducia in se stessi, altre volte rimane cosi vaga da fare nascere un senso di dubbio sui propri strumenti per discriminare come muoversi nel mondo. Magari sappiamo di avere un sesto senso, ma non sappiamo quanto sia affidabile per noi questo potere magico.

Al contrario, altre volte, prendiamo scelte che ci sembrano opportune per la situazione, o per l’altro, senza prestare attenzione a quel magone che arriva improvviso, al nodo allo stomaco, a quella sensazione di essere fuori posto, quel senso di allerta, o quella fretta di voler fuggire che compare da qualche parte dentro di noi.

Sono segnali che arrivano nel corpo ma rimangono sotto traccia mentre noi siamo impegnati a scegliere con la nostra ragionevolezza. In questi casi, prendiamo decisioni e ci posizioniamo nella nostra vita con una sorta di bilancia che sa valutare i pro e i contro: finiamo per fare scelte vantaggiose, non sempre quelle in cui ci sentiamo comodi dentro.

Ma perché non riconosciamo quei segnali? e poi, quanto peso possiamo dare alle nostre sensazioni? quanto sono affidabili?

Imparare a fidarci di noi stessi

Il punto non è confidare nella nostra razionalità o nelle nostre sensazioni, decidendo quale dei due poteri sia superiore e più affidabile per noi ma imparare a integrare le nostre ragioni emotive con quelle più pragmatiche e riflessive.

Abbiamo bisogno di cucire le informazioni che vengono dalla mente, dal corpo e dal nostro sentire trovando parole per nominare la nostra esperienza: quando ciò che pensiamo e ciò che sentiamo trova un nome -il suo nome- acquistiamo padronanza. Torniamo sereni.

La consapevolezza ci permette di ricucire questi due aspetti dell’esperienza, senza permettere che nessuna delle due predomini sull’altra. Senza trascurare nessuna parte di noi.

Ascoltarci significa prenderci un tempo per prestare la stessa attenzione a cosa succede sia nelle piani alti della nostra mente, sia nei bassifondi del nostro sentire; cosi, fuori dalla reattività, le sensazioni e i pensieri prendono forma, trovano il loro nome. Non ci serve cercare spiegazioni o motivazioni ma semplicemente nominare, che è il primo gesto che facciamo quando entriamo in relazione con qualcuno: chiediamo il nome. Possiamo prenderci un tempo per farlo anche con noi stessi? Per conoscere come risuoniamo con ciò che viviamo mentre abitiamo il mondo?

Quando ci trattiamo cosi, facciamo quello che sa fare un buon genitore con il proprio bambino: si sintonizza sui suoi i bisogni e mette parole alle sue sensazioni in relazione a ciò che sta vivendo. Gli permette cosi di dare significato a quello che sta sperimentando e, al contempo, di fidarsi di se stesso, della propria saggezza interna. La pratica di mindfulness ci aiuta a farlo, un respiro per volta.

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Psicologa delle relazioni interpersonali. Amo accogliere e accompagnare verso il cambiamento le persone che attraversano un momento critico.

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