Era gennaio, di sette anni fa, uno di quelli freddi e grigissimi, ed io stavo attraversando un momento arido; apparentemente andava tutto bene, eppure nulla di quello che facevo aveva cosi tanto senso. Al mattino, il suono della sveglia innescava domande complicate e mancavano le energie per uscire dal piumone, trovare risposte, e continuare a fare.
È stato in quei giorni grigi e sciapi che mi sono iscritta al primo percorso di mindfulness, forse mossa da un’intuizione, o solo dal desiderio di ritrovarmi, tuffandomi in qualcosa di nuovo.
È stata un’esperienza che gradualmente ha preso spazio dentro di me ed è diventato il pretesto per darmi un po’ di respiro, incontrarmi una volta alla settimana con un gruppo, e ogni giorno con me stessa, in un modo che non avevo ancora sperimentato.
Ho cominciato a ri-frequentarmi in uno spazio di tempo dove non c’era nulla da fare, ma potevo stare, accomodarmi nella mia vita e scoprire cosa c’era già, e soprattutto chi era quella li che si presentava all’appuntamento, in silenzio.
Cosa succede quando ci asteniamo dal fare
Ecco, direi che la prima cosa che la pratica di consapevolezza ci aiuta a sperimentare è la possibilità di fermarci per qualche momento e non-fare: sembra una cosa banale ma la nostra mente è molto gratificata dalle nostre azioni e performance, e questo produce un senso di efficienza, adeguatezza.
Invece, quando ci fermiamo e invitiamo mente e corpo all’inattività, all’immobilità e al silenzio, emerge -oltre alla sensazione di perdere tempo, talvolta- ciò che sta sotto al nostro fare: la nostra modalità di essere. Cosa sentiamo? cosa percepiamo? come stiamo? ce lo siamo già chiesti oggi, ad esempio?
Nella stanza della terapia, mi trovo spesso a fermare con delicatezza narrazioni dettagliate che le persone portano sulla loro vita, perché spesso ci affoghiamo di parole per non sentire. Vogliamo capire con la testa, ma poi solo questo non ci basta perché abbiamo bisogno di comprenderci emotivamente restituendoci il permesso di sentire e di ripararci.
L’esperienza -apparentemente semplice- di tornare a mettere l’attenzione sul corpo può diventare cosi una nuova scoperta perché ci invita ad osservare qualcosa di piccolo, come fanno i bambini, e ci svuota la mente da domande ingombranti o richieste sopraffacenti.
Stare in compagnia del respiro: perché? a che serve?
Da quel primo incontro, sono seguiti anni di studio ed esperienze che mi hanno portato ad integrare la mindfulness nella mia pratica clinica.
Perché non è un’esperienza sensazionale o spirituale, che fa genericamente bene, ma una pratica convalidata da studi scientifici solidi che iniziò per prima a pubblicare Jon Kabat-Zinn e a cui sono seguite migliaia di pubblicazioni,
Torniamo a noi: a cosa serve, dunque? perché osservare e stare in compagnia del nostro respiro?
Portare l’attenzione al respiro è l’esperienza base della mindfulness e ci aiuta ad acquisire consapevolezza di noi perché:
- il modo in cui respiriamo riflette il nostro modo di stare in relazione con noi stessi e con il mondo; e il motivo è questo: ogni respiro si compone di due fasi e due pause (inspiro-pausa-espiro-pausa) e in relazione alle nostre emozioni o sensazioni corporee cambia il tempo delle pause e cosi il respiro diventa corto, accelerato, trattenuto;
- ci permette di spostare il focus dal pensare (dalla mente), al percepire (al corpo):
- ci aiuta a rallentare l’andirivieni della mente tra passato e futuro e ritornare al momento presente: torniamo qui, a questo respiro, sempre nuovo;
- seguendo l’invito a non-fare e semplicemente stare-ad-osservare, ci permette di calmare mente e corpo (e stimola il nervo vago che modula la frequenza cardiaca),
- con un pochino di allenamento, è la condizione per osservare da un posto sicuro pensieri ed emozioni.
In definitiva, il respiro è un punto di osservazione del nostro mondo interno sempre disponibile, un amico che ci fa compagnia 24 ore su 24 e ci permette di accorgerci di come stiamo. Proprio adesso.
Perché non sta funzionando? Forse sto sbagliando qualcosa?
Un altro aspetto di perplessità riguarda ciò che osserviamo quando, al termine della pratica, non sempre le cose vanno proprio come ce le aspettiamo: va bene, sentirsi più calmi ma addirittura troppo, arriva quasi il sonno, qualche sbadiglio, mancanza di energia! Non serviva a rilassarsi e ricaricarsi? Oppure -può capitare anche questo- ci sentiamo addirittura più agitati e in ansia.
Insomma -ci chiediamo- perché non funziona come mi sarei aspettato/a? Sto sbagliando qualcosa?
In altre parole, quando ci avviciniamo alla pratica di mindfulness abbiamo una serie di aspettative di risultati che vorremmo raggiungere; altrimenti perché farlo? E poi ci scontriamo con un’esperienza diversa e cominciamo a mettere in dubbio di averla eseguita bene. O magari concludiamo che non fa per noi.
Il punto è che la pratica di consapevolezza non serve ad ottenere un effetto, un risultato specifico. Non serve a rilassarsi, e neanche a ricaricarsi, no. Questi semmai possono essere degli effetti collaterali dell’esperienza. Sono alcune delle possibilità di sentire che possiamo sperimentare.
Semplicemente ci aiuta ad osservarci e incontrarci cosi come siamo, momento per momento. E scoprire come ci presentiamo all’appuntamento con noi stessi: siamo irritabili? viene a galla un po’ di torpore?
Poi, tenendo conto di quello che osserviamo, potremmo chiederci: cosa posso fare per me in questo momento in cui mi sento senza energie? di cosa ho bisogno? come stavo coprendo o evitando di ascoltare questa sensazione?
E soprattutto non esiste un modo di fare bene la pratica perché non c’è possibilità di errore, è un’esperienza. Uno scienziato onesto non sbaglia l’esperimento: se si limita ad osservare, riporterà i dati ottenuti e ogni risultato è utile: ne trarrà le dovute considerazioni. Anche per noi è cosi: possiamo predisporci ad osservare, come scienziati curiosi, cosa accade dentro di noi: a volte è piacevole, altre volte spiacevole o neutro.
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