In questi giorni, stuzzicata da alcune storie che ho incontrato, stavo riflettendo su una cosa: quando ci succede qualcosa di intenso che ci scuote -dopo la meraviglia o il disorientamento- iniziamo a chiederci il perché. Come fanno i bambini. E non è un caso, se ci pensi: le cose nuove sconvolgono le nostre certezze e innescano in noi la curiosità e la fame di trovare il significato a quello che ci sta capitando.

Continuiamo a farlo anche da grandi e, qualche volta, quando stiamo male, il meccanismo si inceppa. Ora, è vero: trovare la causa, individuare l’evento scatenante o il responsabile -se c’è n’è uno- è affascinante e rassicurante, soprattutto per chi fra noi è più logico e razionale. Spesso, a dire il vero, anche il popolo degli esperti si adopera a trovare frettolosamente questo nesso causa-effetto tra gli eventi.

Tuttavia, a volte investiamo molte, troppe energie sulla ricerca del perché: perchè sono cosi? perchè mi sta capitando questa cosa che mai avrei immaginato nella vita? Perchè lui/lei si comporta cosi?

Quando tutte le nostre energie vanno in questa direzione ci depistiamo.

Guardare dalla parte sbagliata

Il primo rischio di questa attitudine all’investigazione è che finiamo per focalizzare la nostra attenzione sul passato e sugli altri (sono cosi perché mio padre/ quell’insegnante/ mia madre…), e cosi troviamo un antecedente logico. Ma spesso trovare il motivo logico dà sollievo solo alla mente che per un po’ si sente soddisfatta di avere individuato la punteggiatura di quello che ci succede. Ma il nostro sentire non cambia: rimane intatto e trascurato. Con la testa sappiamo tutto ma niente di quello che stiamo vivendo cambia.

Interpretare ed etichettare

Il secondo rischio di questo bisogno di voler capire con la testa è figlio del primo e ci fa avventurare alla ricerca di interpretazioni ed etichette per spiegarci le cose che stiamo vivendo. “Faccio cosi perchè sono bipolare”, “Lui si comporta cosi perchè è un narcisista”, “Sono cosi pesante e problematica di carattere”, “Forse sono solo complicata” ecc… 

Le etichette o le diagnosi, se le usiamo cosi, sono solo modi per inchiodarci dentro una precisa narrazione di noi, per raccontarci sempre la stessa storia che non ci soddisfa e non produce alcun cambiamento. Quando lo facciamo, trascuriamo che siamo esseri in divenire, in genere molto complessi ed ingombranti per entrare dentro una sola etichetta.

Le diagnosi invece, quelle ben fatte, sono una fotografia di come funzioniamo in-questo-preciso-momento e suggeriscono cosa si può fare per cambiare.

 

Quando è utile (e quando no) ricercare le cause

In ambito scientifico trovare le cause o fare diagnosi è ovviamente importante, non voglio certo svalutarlo: ci aiuta a definire il trattamento. La logica è questa: se scopro perché è successa una data cosa, adotterò un’azione o una terapia per riparare il danno e ripristinare un buon funzionamento. La storia di un problema è sempre importante perché contiene delle informazioni utili rispetto a quello che abbiamo imparato. E’ preziosa se diventa un punto di partenza che mi conduce a trovare un senso a questo presente e se mi offre una chance per riscrivere una storia nuova.

Tutto questo non funziona però se ci trasforma in piccoli e instancabili detective alla ricerca di responsabili, cause certe e soluzioni infallibili. Dovremmo impegnarci a cercare i perché utili. Ad esempio, se avrò scoperto che “tendo a compiacere perché ogni volta che mio padre disapprovava qualcosa del mio comportamento si metteva a distanza da me”, come utilizzerò questa scoperta?

La ricerca del perché non è utile se ci distrae da noi, dal presente, dalla ricerca di un’alternativa e se non ci permette di avere uno sguardo gentile e comprensivo verso noi stessi. Non ci è utile se ci rende rassegnati e critici; se ci impedisce di accettare che a volte non ci sono soluzioni ma possiamo comunque imparare a consolarci.

Alessandro D’Avenia ne L’arte di essere fragili dice cosi:

“Ricordo ancora quella notte d’agosto, sulla spiaggia, in cui mostravo le costellazioni a mio nipote Giulio che allora aveva sei anni, e gli raccontavo le loro leggende. Lui, […] a un tratto, mi chiese perché quando c’è il giorno il cielo diventa azzurro e le stelle non si vedono più. Provai a rispondere con la motivazione scientifica ma mi rendevo conto che non gli bastava, ai bambini bisogna spiegare il fine delle cose, non solo la causa. Se ti chiedono perché piove, non puoi rispondere con la percentuale del vapore acqueo, ma devi dire: per permettere alle piante di fiorire”

Forse, in fondo, non abbiamo tanto bisogno di spiegazioni ma di ritrovare un senso, il significato intimo di quello che stiamo sentendo in questo momento. Di trovare le parole giuste per spiegare noi stessi a noi stessi. Di comprenderci.
Possiamo farlo coltivando queste domande: cos’ho imparato da quella storia?/Cosa posso imparare da questa esperienza? Come posso darmi la possibilità di fiorire oggi?

 

 

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Psicologa delle relazioni interpersonali. Amo accogliere e accompagnare verso il cambiamento le persone che attraversano un momento critico.

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