Di fianco alla porta che Paolo e suo figlio Mattia varcano ogni mattina, c’è una signora impegnata a sferruzzare a maglia. Al loro passaggio alza lo sguardo, li saluta e li accompagna in classe. La maestra, a quel punto, segue un rito simile: li guarda, rivolge un saluto, poi torna a giocare con gli altri bambini. Mattia, che in un primo momento rimane appiccicato alle pareti, un centimetro alla volta si allontana dal papà e guadagna il centro della stanza, ritrovandosi vicino ai compagni, incuriosito.

Paolo è piacevolmente sorpreso: ha davanti a sé un’accoglienza attenta, ma mai invadente, proprio ciò di cui suo figlio ha bisogno. Mattia è il benvenuto, quando vuole lui, con il suo tempo.

L’episodio che Paolo mi racconta è interessante per due ragioni: la prima è che spesso pensiamo che accogliere significhi rivolgere all’altro gesti plateali, farlo sentire al centro delle nostre attenzioni, e la seconda è che tutti noi nutriamo un grande bisogno di essere visti e riconosciuti per quello che facciamo, per le nostre qualità, per le nostre competenze, per il semplice fatto di essere così come siamo. Qualche volta ci sembra di non ricevere abbastanza apprezzamenti, allo stesso tempo però abbiamo anche paura di essere visti, se non addirittura il desiderio di scomparire.

Magari ci lamentiamo di non essere stati valorizzati in famiglia o sul lavoro e rimaniamo delusi, di contro facciamo fatica a chiedere esplicitamente ciò di cui abbiamo bisogno al nostro partner, accettiamo di fare qualcosa controvoglia sperando di essere gratificati, evitiamo di esprimere un disappunto per il timore di risultare inopportuni, eccessivi. Ci assottigliamo fino a diventare trasparenti e invisibili allo sguardo altrui.

Farci vedere e mostrare agli altri le nostre necessità ci fa sentire sovraesposti, vulnerabili. A me succede spesso ed è un tema con cui mi relaziono ogni giorno, perché le persone vengono da me proprio quando si sentono più fragili, non di rado sono la prima persona a cui svelano qualcosa che suscita vergogna o che si sono tenute dentro per molto, troppo tempo.

 

Evitare lo sguardo dell’altro, evitare la nostra difficoltà

Quando arrivano ad un incontro a quattr’occhi, le aiuto a guardare da vicino questa sensazione di fragilità e così ho provato a comprendere quando anche io mi sento più esposta, più scoperta. Ho passato in rassegna quei momenti e ho rivisto anche cosa faccio in genere per non sentirmi così: evito di aprirmi per non lasciar vedere delle parti di me, per proteggermi dalla possibilità che quelle cose non piacciano – agli altri, e ovviamente prima di tutto a me stessa –, per tenermi alla larga da commenti e consigli non richiesti.

Talvolta, quando mi chiedono come sto, rispondo “Tutto bene, grazie” anche se quel giorno sono triste; lo faccio pensando che l’altro non mi possa capire fino in fondo, perché dopotutto rispetto ai grandi problemi quella difficoltà è poca cosa.

Tornando ai tempi di scuola, raramente alzavo la mano per fare domande, temevo i commenti della professoressa di matematica, che spesso sentenziava: “Questa è una domanda intelligente!”, lasciando quindi intendere che ce ne fossero di stupide, banali, non buone.

Lo sguardo dell’altro è come uno specchio che ci permette di vederci. Ma se siamo in difficoltà con l’immagine che incontriamo e siamo tanto severi, evitiamo lo sguardo, cerchiamo posti riparati dove sentirci al sicuro.

In fondo, abbiamo tanto bisogno di essere visti, quanto di passare inosservati in determinate circostanze, perché lo sguardo che cerchiamo può generare al contempo un certo timore.

Ci sono incontri che sanno fare questo, almeno per me è stato così: sanno avvicinarti dedicandoti tutta la loro attenzione e sanno declinare lo sguardo quando tu lo rivolgi altrove. Proprio come hanno sapientemente fatto le maestre con il piccolo Mattia. Sono persone che sanno procedere rispettando i segnali di stop, che avanzano lentamente e generosamente quando sanno di poterlo fare, svelandosi loro per prime. Questo le rende simili a un porto sicuro: ti aspettano e sono presenti.

Ora, di quest’arte di guardare, abbracciando il desiderio sano di nascondersi o proteggersi, ne ho fatto la mia professione. Non so se sono sempre capace di tale sguardo, ovviamente, ma so di capire molto bene chi ha paura di mostrare dei nervi scoperti o qualcosa che non gli piace. La prima cosa che mettiamo in chiaro, infatti, è la profondità a cui ci autorizziamo a spingerci, con lo sguardo e con le parole, sentendosi comunque al sicuro. Mi accorgo che ogni volta che facciamo spazio ad una fragilità e la condividiamo, diventiamo più vicini. E questa intimità diventa risanante, ancora prima di tutto il resto che avviene in terapia.

Imparare a scegliere il nostro posto

Cosa fare allora quando ci accorgiamo che abbiamo bisogno di essere visti, oppure, al contrario, quando ci accorgiamo che preferiamo cavarcela da soli, lontani dallo sguardo altrui? Prima di occupare il nostro posto al sole o quello in ombra, fermiamoci a riconoscere di cosa abbiamo bisogno per scrivere una storia nuova. Prendiamoci il tempo per fare pace con la nostra fame e con i nostri timori. Se impariamo ad accoglierci così come siamo, momento per momento, possiamo invitarci con gentilezza a scegliere il posto che preferiamo adesso. O invitarci, con gentilezza, a sperimentare l’opzione che ci è meno familiare.

Se desideri fare questo viaggio insieme ad altri che, come te, avvertono il bisogno di osservare il proprio modo di stare in relazione, Relazioni che nutrono è l’esperienza giusta. Insieme ci prendiamo cura dei bisogni e delle paure che sorgono proprio mentre siamo in relazione, di fronte allo sguardo dell’altro.

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Psicologa delle relazioni interpersonali. Amo accogliere e accompagnare verso il cambiamento le persone che attraversano un momento critico.

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