L’altro giorno osservavo mio figlio mentre giocava al parco insieme ad altri bambini; hanno fatto diversi giochi ma mi sembra di aver capito che sostanzialmente giocavano a fare delle gare: in bici, a chi lanciava l’areoplano più in alto, misurando chi si arrampicava più velocemente o nel modo più divertente. Ridevano divertiti e il confronto fra loro sosteneva il gioco.
Siamo abituati a fare paragoni con gli altri, lo impariamo a fare da piccoli e in parte cresciamo grazie al confronto.
Continuiamo a fare paragoni anche da grandi: lo facciamo per spronarci, per migliorarci, per sfidarci. Qualcosa però comincia ad andare storto quando il gioco del paragone alimenta la competitività e il desiderio di vincere anziché il gioco, quando ci sentiamo minacciati se gli altri fanno meglio di noi. E’ in quel momento che iniziamo a gareggiare con noi stessi e con gli altri perché il successo degli altri ci mette a disagio in quanto ci fa incontrare la sensazione di non essere abbastanza.
I paragoni con gli altri
Il confronto ci mette a disagio e non diventa utile quando ci mette a distanza dagli altri, facendoci percepire noi e loro come appartenenti a squadre separate perché le nostre qualità si collocano al di sopra o al di sotto di un certo standard. Cosi possiamo farci l’idea che gli altri siano più felici, più realizzati, più fortunati o più ricchi di noi. Ci diciamo che siamo migliori o peggiori per qualche caratteristica e alimentiamo la nostra attitudine a lodarci o biasimarci per quello che siamo o per quello che sappiamo fare.
A volte sorge anche l’invidia che è un’emozione che non gode di una buona reputazione perché in genere ci vergogniamo quando la sperimentiamo. Eppure è molto utile, se la utilizziamo bene: ci aiuta a vedere cosa apprezziamo e iper-vediamo negli altri; ci racconta come ci piacerebbe diventare e allo stesso tempo quanto ci sentiamo incapaci di realizzare quel risultato. I paragoni con gli altri e l’invidia perciò diventano utili se, dopo che li viviamo, ritorniamo dentro di noi e ci chiediamo: cosa posso fare per andare in quella direzione? Come posso rimboccarmi le maniche per ottenere quello che desidero (e invidio nell’altro)?
Quando scopriamo che l’altro ci aiuta a vedere qualcosa che aspetta di essere realizzato dentro di noi e possiamo guardarlo con gentilezza, la competitività e la sensazione di non essere abbastanza svaniscono.
Il paragone con l’idea che abbiamo di noi stessi
Facciamo paragoni anche con l’idea che abbiamo di noi stessi: in questo caso il confronto è fra dove siamo e dove vorremmo essere riferendoci di continuo ad un ideale che ci piacerebbe raggiungere. Questo alimenta la nostra insoddisfazione e il perfezionismo perchè stiamo in compagnia di una voce critica che è attenta ai risultati e ci spinge sempre a fare qualcosa in più trascurando invece quello che sentiamo e siamo già, nel presente.
Qualche giorno fa durante un colloquio una giovane donna me lo ha spiegato con questa immagine:
«Quando sono arrivata qui, c’era un burrone tra chi ero e chi volevo diventare. Me lo immaginavo proprio così: da una parte c’ero io, dall’altra come desideravo essere e in mezzo una voragine.»
«E cosa è cambiato adesso?»
«La vertigine più grande è stata rendermi conto che io e chi volevo diventare eravamo la stessa persona. Non c’era un “altro” da me, ho scoperto degli strumenti che avevo già dentro.»
«Cos’ha colmato quella distanza, secondo te?»
«Scoprire che non dovevo andare lontano, ma stare dentro di me.»
«In pratica sei cambiata davvero nel momento in cui hai smesso di volerti cambiare e ti sei avvicinata a te stessa.»
Fare attenzione alla nostra spinta al perfezionismo o al desiderio di migliorarci sempre significa darci il permesso di sbagliare e di sentirci di valore cosi come siamo, rabbonendo le voci critiche dentro di noi. Significa imparare a confidare in una possibilità di crescere che non passa per l’autocritica ma per la saggezza che ci aiuta a discriminare, con gentilezza, cosa desideriamo cambiare.
Come sfilarci dalla tendenza a fare paragoni:
Cosa fare allora per esimerci da questa tendenza a fare paragoni e placare la sensazione di non essere mai abbastanza?
- Per prima cosa, possiamo allenarci a riconoscere il nostro modo di parlare a noi stessi: è una voce severa? è sfidante e punitiva? O è incoraggiante? Riconoscere la qualità delle parole che rivolgiamo a noi stessi è il primo passo per costruire un’alternativa dentro di noi: se fossimo genitori affettuosi di noi stessi cosa potremmo dirci di diverso?
- La seconda cosa utile è imparare a condividere quello che sentiamo quando siamo competitivi con noi stessi o con gli altri. Rivelare la nostra invidia o la sensazione di inadeguatezza ci permette di sgominare la vergogna che è il terreno in cui prolifera la sensazione di non essere abbastanza.
- Inoltre, possiamo fare attenzione alle esperienze in cui sorge la spinta al perfezionismo per darci il permesso di sbagliare: l’esperienza dell’errore e del fallimento ci accomuna tutti e per questo ci avvicina agli altri; ci permette di sentirci tutti nella stessa barca, capaci di successi e di sconfitte. Sentirci appartenenti alla stessa famiglia umana scioglie il senso di separatezza in cui cresce la nostra competitività;
- Infine, possiamo imparare a guardarci con i nostri occhi, scoprire il nostro punto di vista interno, riconoscendo quello che sentiamo e imparando a darci credito.
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